PALAZZESCHI

Il controdolore.

29 Dicembre 1913.

«Dio non à né corpo, né mani, né piedi, è un puro e semplicissimo spirito».

Ma chi volle dare un’immagine agli uomini di questo fattore dell’universo, dovette servirsi di una immagine umana e ce lo fece vedere uomo. Fu un omone grande grande, o nudo, dalle membra e dai muscoli ciclopici, con un magnifico peplo e con sandali, con capelli e barba meravigliosi, con l’indice titanico della mano levata in aria terribile di comando: luce o tenebre, vita o morte.

Se uomo volete raffigurarvelo, per comodità del vostro cervello, questo spirito supremo ed infinito, perchè grande, quando voi dovete forzatamente fissare dei limiti a questa grandezza? La vostra non potrà mai arrivare alla sua, dunque pensate addirittura ad un uomo come voi e sarete al vostro posto. Perchè in peplo e non in tait? Perchè in coturno e non con un comune paio di scarpe walk-over? Perché un’immagine seria e relativamente grande è più facile di una relativamente piccola e allegra. È il suo spirito che voi dovete riuscire a scoprire; il suo corpo, che non esiste, potete raffigurarvelo come vi pare e piace.

Se io me lo figuro uomo, non lo vedo né più grande né più piccino di me. Un omettino di sempre media statura, di sempre media età, di sempre medie proporzioni, che mi stupisce per una cosa soltanto: che mentre io lo considero titubante e spaventato, egli mi guarda ridendo a crepapelle. La sua faccettina [p. 171 modifica]rotonda divinamente ride come incendiata da una risata infinita ed eterna, e la sua pancina tremola, tremola in quella gioia. Perchè dovrebbe questo spirito essere la perfezione della serietà e non quella dell’allegria? Secondo me, nella sua bocca divina si accentra l’universo in una eterna motrice risata. Egli non à creato no, rassicuratevi, per un tragico, o malinconico, o nostalgico fine; à creato perchè ciò lo divertiva. Voi lavorate per alimentare bene voi e i vostri figli, non per fare con essi lunghi sbadigli di fame. Egli lavorò per tenere alimentata la gioia sua ed offrirne alle sue degne creature. E comprenderete bene che por divertirsi tutti in eterno, ce ne vogliono dei curiosi ed eterni spettacoli!

Come avevate potuto pensare che egli avesse creato se ciò fosse stata cosa tediosa? Come poteva venirci da questa forza smisurata, opera da perditempo senza spirito! Bando dunque a tutta la vostra serietà, se volete comprendere qualche cosa di lui e della sua creazione, e specialmente di questa piccolissima parte che ci riguarda: la nostra terra. Il sole sarà, por esempio, il suo giuoco preferito per lunghe interminabili partite di pallone; la luna il suo specchio comico dalla luce tutta bitorzoluta, cosicché egli potrà vedervisi nelle più ridicole maniere. La nostra terra non è dunque che uno di questi suoi tanti giocattoli fatto precisamente così: un campo diviso da una fittissima macchia di marruche, spini, pruni, pungiglioni. À posto l’uomo da un lato dicendo ad esso: attraversala, là è la gioia, è il largo, la vita degli eletti, vivrai coi pochi coraggiosi che come te l’attraversarono. Riderai del dolore dei poltroni, dei paurosi, dei caduti, dei vili, dei vinti.

Fino dal primo momento l’uomo è in massima parte rimasto fuori a lamentarsi, a considerare lo spessore dell’oscuro ammasso del prunaio, a misurare la proporzione, la lunghezza, la quantità, la posizione degli spunzoni, a tentare di contarne il numero, a cercarvi un introvabile pertugio, a far paragoni fra questo e quello, invece di buttarvisi dentro risoluto. Alcuni [p. 172 modifica]vi sono in mezzo, incapaci di andare avanti o indietro, preferendo vivere con un pruno in un occhio, piuttosto che affrontarne uno non si sa dove. Questi gridano disperatamente, e i loro lagni scoraggiano sempre più quelli che sono ancora fuori, mentre fanno sempre più sganasciare dalla risa e tenersi la pancia per non liquefarsi dalla gioia, quei pochissimi che vivono ridendo, protetti dal loro signore, che al centro di tutte le cose ride più di loro.

Il piagnucolamento delle moltitudini esterne, solletica perennemente il bollore della loro allegrezza; le grida disperate di quelli che stanno dentro la siepe gli fanno dare lanci di giubilo. Ecco press’a poco il giuoco.

L’uomo che attraverserà coraggiosamente il dolore umano godrà dello spettacolo divino del suo Dio.

Egli si farà simile a lui, attraversando questo purgatorio di spine ch’egli gli à imposto per godere primo lui e comunicare la stessa gioia ai suoi diletti, egli, corpo umano, ma perfettissimo, che non à sulle sue membra di gioia una sola cicatrice di dolore.

Uomini, non siete creati, no, per soffrire; nulla fu fatto nell’ora di tristezza e per la tristezza; tutto fu fatto per il gaudio eterno. Il dolore è transitorio (voi soli ne eternate l’esistenza con la vostra paura); la gioia è eterna. Ecco il vero peccato originale, ecco il solo fonte battesimale. Vili! Paurosi! Poltroni! Incerti! Ritardatari! Passate la macchia! SE CREDETE CHE SIA PROFONDO CIÒ CHE COMUNEMENTE S’INTENDE PER SERIO SIETE DEI SUPERFICIALI. La superiorità dell’uomo su tutti gli animali è che ad esso solo fu dato il privilegio divino del riso. Essi non potranno mai comunicare con Dio. Un piccolo e misero topo, può farci udire il suo pianto, i suoi lamenti; nessun animale ci à fatto ancora udire una calda sonora risata.

Che il riso (gioia) è più profondo del pianto (dolore), ce lo dimostra il fatto che l’uomo, appena nato, quando è ancora incapace di tutto, è però abilissimo di lunghi [p. 173 modifica]interminabili piagnistei. Prima che possa pagarsi il lusso di una bella risata avrà dovuto seguire una buona maturazione.

BISOGNA ABITUARSI A RIDERE DI TUTTO QUELLO DI CUI ABITUALMENTE SI PIANGE, sviluppando la nostra profondità. L’UOMO NON PUÒ ESSERE CONSIDERATO SERIAMENTE CHE QUANDO RIDE. La serietà in tal caso ci viene dalla ammirazione, dall’invidia, dalla vanità. QUELLO CHE SI DICE IL DOLORE UMANO NON È CHE IL CORPO CALDO ED INTENSO DELLA GIOIA RICOPERTO DI UNA GELATINA DI FREDDE LAGRIME GRIGIASTRE. Scortecciate e troverete la felicità.

Si è fino alla nausea fatto del vieto romanticismo sopra le sventure umane; le deformità del corpo, le malattie, le passioni, la miseria, la vecchiaia, i cataclismi, le carestie, furono ritenute sciagure tutte da bagnare di pianto. Se esse fossero state un tantino approfondite, noi le avremmo già come le fonti più vive della nostra allegrezza. Nulla fu creato con malinconia, ricordatelo bene; NULLA È TRISTE PROFONDAMENTE, TUTTO È GIOIOSO.

Un giorno natura, questa vecchia pittrice da accademia, dopo avere impartite al suo quadro mille spasmodiche sfumature di luci e di colori, coi suoi tramonti e colle sue aurore, mille toni di verde e di azzurro, «Ecco! — ella avrebbe detto alla fine aprendo la porta del suo studio a un uomo senz’occhi: — venite, guardate!». E credete proprio che essa fosse così sciocchina da farlo, se ciò non era spiritoso!

Il cieco ci rappresenta la profondità, il privilegio di tutte le viste. Egli à chiusa in sé la gioia di tutte le luci e di "tutti i colori. Se voi lo guardate, con aria lagrimosa siete dei poveri cervellini da tre centesimi.

E ridetegli pure in faccia, a questo beniamino! Natura ve lo indica per questo. Siete ancora degli esseri compassionevoli? Egli non vi vedrà. Siete ancora dei vili paurosi? Ma egli è il solo che non potrà battersi con voi.

Un gobbo, natura ve lo indica perchè gli ridiate [p. 174 modifica]dietro, e proprio dietro nella schiena essa gli pose il tesoro della sua giocondità. Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita a cantare dolorosamente non potrebbe essere mai e poi mai un uomo profondo, ma il più superficiale di questa terra. Egli si sarebbe fermato a piagnucolare alla superficie della sua gobba come un fanciullo alla parola «bao» dopo averci rubato lo scrigno del suo tesoro dorsale per non essere stato capace di penetrarlo.